[Recensione] Le Cose Migliori di Valeria Pecora
"Qualche notte diventavo davvero quel pellicano nei miei sogni. Le storie ci accompagnavano nel sonno della notte, le giornate risvegliavano invece la voglia di crescere, di barare quando mia madre misurava la nostra altezza sullo stipite della porta. Mi sollevavo sulle punte dei piedi, affrettavo la marcia del tempo con la presunzione innocente di chi non sa cosa lo aspetta fuori"
Sinossi
Una vita apparentemente tranquilla, serena, all’interno di una famiglia
del ceto medio viene spazzata via dalla tragedia della malattia. La madre di
Irene si ammala di Parkinson e questo evento cambierà il corso di tutte le loro
esistenze, la sua e quella di tutta la sua famiglia. Il punto di rottura viene
segnato dalla finale dei mondiali di calcio. 8 luglio del 1990 e un’afosa
giornata estiva segnerà per sempre la sorte della protagonista. Nelle ore che
precedono la partita più seguita al mondo che Irene abbandonerà per sempre i
panni dell’infanzia per vestire quelli dell’età adulta. La piccola cade,
inciampa in un masso grezzo di cemento lasciato per dimenticanza sull’asfalto:
un guidatore distratto che corre troppo, sua madre che viene sequestrata dalla prima
avvisaglia della malattia……
Questo è un romanzo
a cui tengo in modo particolare, sia perché l’autrice è una mia coetanea nonché
conterranea, sia perché ho trovato tantissimi punti in comune con Irene, la
protagonista del libro.
In un “condensato di
emozioni”, con uno stile impeccabile, Valeria Pecora ha descritto tutti i
momenti salienti della vita di una giovane ragazza, a partire dalla nascita e
ripercorrendo le sue “cose migliori”, talvolta ostacolate da eventi esterni
che, di volta in volta, cercano di farle perdere la speranza nel futuro.
Nella prima parte
del romanzo viene descritta l’infanzia. E questo è sicuramente uno dei periodi
in cui, anche io, come Irene, ho vissuto davvero una parte dei miei momenti
migliori. Da bambino la felicità è un giro in bicicletta, quando anche se cadi
e ti sbucci il ginocchio i “grandi” hanno sempre la soluzione pronta: un soffio
leggero nella ferita e, come per magia, i pianti e il dolore spariscono e sei
pronto a ripartire in sella. Personalmente posso dire di aver avuto un’infanzia
perfetta e di aver conosciuto un posto speciale, una casa in campagna dove
trascorrevo tutte le estati con i miei genitori, zii, cugini e, soprattutto, i nonni,
che anche se non ci sono più rivestono sempre un ruolo speciale nei miei
ricordi.
Purtroppo Irene
viene presto a conoscenza di una ferita per la quale non esiste alcuna magia:
si chiama morbo di Parkinson e colpisce la mamma, Maria, a soli 39 anni. E
anche qui sono affiorati, per me, tanti ricordi. Anche se Maria era davvero giovanissima
(a discapito di quanto dicessero le “statistiche”), ho ritrovato tantissimi
legami con una mia esperienza personale, che soltanto chi conosce questo tipo
malattie può capire a fondo. Quando ero già all’università, anche mia nonna, il
pilastro della mia famiglia materna, si è ammalata. Anche per lei, come per
Maria, non esisteva una cura alla “trasformazione” che inevitabilmente si
subisce, che porta anche le persone più forti a dover dipendere dagli altri.
Perché mia nonna era
una forza della natura, si è occupata prima di sei figli e poi di diciotto
nipoti, sempre con il sorriso. Ricordo ancora che, quando io pensavo di non
essere capace di fare qualcosa, lei mi esortava a provarci e riprovarci. Potrei
riassumere il suo pensiero di vita in “volere è potere”: se qualcuno poteva
riuscirci, allora potevi farcela anche tu. Io, da pessimista, pensavo “ma no,
alcune cose sono impossibili!”, eppure lei mi ha dimostrato che mi sbagliavo,
tanto che fino a 70 anni è andata in windsurf e chi passava per caso nella spiaggia
dove andavamo sempre, pensava di avere un’allucinazione.
Maria mi ha
ricordato molto mia nonna, per il carattere, per i pensieri e per il fatto di
non mostrare mai agli altri il dolore, cercando di non arrendersi mai, anche
quando il destino sembra andarti contro e fare di tutto per farti crollare.
La seconda parte del
romanzo è, invece, incentrata sulla vita di Irene da adulta. È come se la
malattia della mamma venisse chiusa a chiave in un cassettino del cuore, quasi
per accantonare il dolore e cercare di non pensare al perché la tua vita è
stata scossa da un evento così incomprensibile agli occhi dell’uomo.
Irene inizia la trafila
da neo laureata per la generazione degli “stagisti”. Anche questo é un
argomento che conosco molto bene: siamo giovani in gamba, preparati, ma ci
ritroviamo a dover lavorare per pochi mesi, spesso anche senza retribuzione,
per essere “formati”. Una formazione di fatto inutile, visto che dopo sei mesi
verremmo salutati con il sorriso (se ci va bene), e sostituiti dal tirocinante
successivo.
E poi Irene conosce
un altro tipo di amore, non quello dei genitori, protettivi e sempre pronti ad
aiutare a rialzarti dopo ogni caduta con parole di incoraggiamento, ma l’amore
per un'altra persona, che oggi, più che mai, richiede una forte dose di
coraggio. Anche in questo caso, Valeria Pecora racconta benissimo i sentimenti
che si provano di fronte a certi ostacoli che, purtroppo, a volte le relazioni
comportano. Come quando, dopo la fine di una storia importante, ci si ritrova
da sole a analizzare minuziosamente ogni piccolo dettaglio della storia,
cercando dei segnali che magari ci sono sfuggiti, di capire perché la relazione
non ha funzionato, di cercare dei “colpevoli” che, spesso, non ci sono.
Ma la storia di
Irene è, soprattutto, una storia di speranza. È la speranza che accompagna
questa giovane ragazza e che caratterizza tutto il romanzo. Perché è vero che
ci sono degli eventi che non possiamo cambiare, è vero che talvolta il destino
sembra essere sempre contro di noi, ma, parafrasando una frase del romanzo, è stupendo
ammirare i tramonti, ma ancora più bello è vedere l’alba di un nuovo giorno che
può portare “cose migliori”.
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